A 150 km a sud di Delhi si trova la città di Vrindavan.
Secondo il poema epico Mahabharata, Krishna trascorse qui gli anni della sua giovinezza, facendo diventare la città meta di pellegrinaggio indù e di comunità di Hare Krishna provenienti da tutto il mondo.
Le strette vie, affollate da mucche, mendicanti e commercianti, piene di pellegrini, ingannano un occhio non allenato all’attenzione dei dettagli, che a primo sguardo fa apparire la città un posto di gioia e allegra spiritualità.
Ma così non è…
Secondo i testi sacri Indù la donna non ha nessun valore.
Appendice del padre prima, dei fratelli poi e infine del marito, alla sua morte ne chiude per sempre la vita sociale, economica ed affettiva.
La Sati, la cerimonia che ardeva viva la donna accanto al marito defunto, fu abolita dagli inglesi nel 1829.
Il Governo indiano, visti i numeri casi sfuggiti al controllo delle autorità, fu costretto nel 1987 ad emanare una legge che punisce, con la pena di morte o l’ergastolo, chi costringe o supporta qualcuno a commettere Sati.
Sopravvivere al rogo non vuol dire avere salva la vita.
Sono spesso allontanate dalla famiglia dai loro stessi figli maschi, ritenute portatrici di malasorte, disgrazie economiche e di morte.
Spogliate di ogni loro avere, proprietà e diritto, vivono in condizioni di estrema povertà ed isolamento.
Ogni simbolo legato al matrimonio viene rimosso.
I capelli vengono tagliati.
Rimosso il mangalsutra, la collana di perline nere regalo dello sposo alla sposa, che nella tradizione è indossato per la lunga vita del marito, il bindi, il punto rosso sulla fronte, il sindur, la striscia rossa tra i capelli.
Spezzati i cerchietti colorati di vetro ai polsi, gettati gli anelli alle dita dei piedi e l’orecchino al naso.
Il sari, vestito tradizionale femminile, diventa bianco.
Costrette spesso a forzati viaggi spirituali senza ritorno, attendono infatti, in luoghi sacri come Vridavan, la morte definitiva e la liberazione dal ciclo infinito delle rinascite.
L’essere allontanate dalla famiglia, il non avere nessuno che le protegga, rende queste donne vulnerabili, oggetto di sfruttamento, anche sessuale, da parte di “generosi benefattori”.
A Vrindavan abitano circa 6’000 vedove dove molte di loro vivono in gruppo, in ambienti umidi e malsani.
Le più sfortunate e povere non hanno nessuna casa e sono costrette a rimanere in strada, dove chiedono in elemosina qualche rupia per arrotondare la giornata.
Ognuno è più sensibile a qualcosa.
I più si commuovono davanti ai bambini, io no, provo tenerezza, ma penso sempre che abbiano una vita davanti, possibilità di riscatto, un modo di uscirne.
Io resto impietrita davanti agli anziani, spesso emarginati, fuori da ogni circuito, troppo vecchi per lavorare, talvolta pesi sociali importanti.
E così vedo lei.
Sguardo basso baciato da qualche raggio di sole, rassegnazione e dolcezza sul viso.
I miei soldi non possono salvarla, non si può salvare il mondo da soli.
Ma non resisto, cerco in borsa qualche rupia, che per me ha il valore degli spiccioli dimenticati in una tasca del giubbotto, in una borsa. Ma per lei no, è cibo, per parecchi giorni.
Mi avvicino, le prendo le mani e le allungo i soldi.
La testa si alza, si illumina con un sorriso.
Con delicatezza continua a stringermi le mani e sempre con delicatezza e la poca forza che ha, cerca di avvicinare la mia testa a lei.
Mi bacia sulla fronte.
Continua a stringere le mie mani.
Vai via e pensi che potevi fare di più, potevi rinunciare ad un aperitivo o una pizza, potevi con poco garantirle di mangiare per tanto.
Pensi che strano mondo è questo, dove quelli che per me erano spiccioli del valore inesistente per qualcuno è gioia, è vita.
E allora si, è vero che una persona sola non li può salvare tutti, ma chi “salva” una vita, salva il mondo.
E la storia è fatta di tanti piccoli gesti anonimi.
Grazie Elisa, il tuo racconto è appassionante tanto quanto straziante
Grazie Gabrio❤