Io e Vincent

Da piccino ognuno sogna di diventare un po’ quello che gli pare, di solito, perlomeno per la mia età andava per la maggiore l’astronauta, il veterinario, l’archeologo.
Io no, sognavo di essere un artista, sognavo una mansarda a Montmartre, i bordelli di Toulouse-Lautrec, le ninfee di Monet, ma soprattutto sognavo Vincent Van Gogh.
E così, cresciuta nel mito di un artista la cui genialità sfociava nella pazzia, all’uscita di Van Gogh – sulla soglia dell’eternità non potevo non andarlo a vedere.
I pareri, le recensioni così discordanti mi avevano messo una curiosità addosso che dovevo in ogni modo placare.
L’unica cosa certa era che il film non fosse un documentario sulla vita del celebre pittore, ma un mix di sensazioni. Un viaggio spirituale e interiore di collegamento con l’anima di Vincent nel momento stesso in cui produceva i suoi capolavori.
Van Gogh era un artista estemporaneo, il suo dipingere era veloce, frenetico.
Caratteristica degli artisti impressionisti era una pennellata a forma di virgola che serviva a conciliare il conflitto tra forma e colore rendendo quest’ultimo vincente. Un indebolimento della sostanza delle cose fondendole con lo spazio circostante.
Colpi di colore e luci che rendono forma, evocandoli nella nostra memoria, ai soggetti rappresentati.
Ma Vincent no, lui era diverso. Non si può non riconoscere il suo tratto.
Pennellate brevi, piccole, veloci, dritte che orientano la materia, che creano solchi, che scolpiscono l’opera. Ogni tratto è una fitta tessitura di segni.
Non esiste una pennellata ampia e rilassata. Per lui dipingere non è facile.
Attraverso i suoi “colpi” ci porta dentro il suo essere.
Una personalità borderline, schizofrenica con attacchi epilettici, che ad oggi qualcuno ha addirittura definito bipolare.

Nel famoso ritratto del Dottor Gachet la pianta dipinta in primo piano è digitale, impiegata proprio nella cura dell’epilessia.
E sembra dovuta a lei la famosa creazione del giallo vangoghiano, poiché provoca un disturbo chiamato xantopsia che crea aberrazioni cromatiche, che fa vedere tutto giallo.
Insomma con l’aspettativa di un film che mi faccia vedere alti e bassi, materia e consistenza, aberrazioni cromatiche sulle note gialle, armata di pazienza scelgo con cura un cinema che mi possa far gustare appieno l’esperienza.
E trovo lui, un piccolo cinema che è un gioiello.
Pago il biglietto, entro e la vista mi riempie gli occhi: sedie rivestite di velluto rosso, soffitto affrescato sapientemente illuminato.
Mi guardo intorno, il cinema è praticamente vuoto.
Insomma i presupposti ci sono tutti per immergermi in un’esperienza bohémien che mi catapulterà nella Francia del XIX secolo.
Si spengono le luci e il film inizia.
Uscita, disorientata, ho bisogno di rimettere in fila i pensieri.
Fortunatamente abbiamo tutti quell’amica che trova per noi le parole quando ne siamo carenti. Io ho la fortuna di avere lei, Silvia, che essendo una giornalista, davanti ad un caffè, rimette in ordine i miei pensieri dandone forma.

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